Introduzione Fra cielo e terra, librandosi nell’aria dall’alto egli mira la forma di ogni cosa. Si è fatto, l’asceta silenzioso, amico e collaboratore di tutti gli Dei. Cavalcando il vento, compagno del suo soffio, dagli Dei sospinto. È di casa in entrambi i Mari, a Oriente e a Occidente – il silenzioso asceta. L’orma segue di tutti gli spiriti, delle ninfe e degli animali della foresta. Il pensiero loro conosce e, traboccante d’estasi, ne diviene dolce amico, l’asceta dai lunghi capelli È probabilmente un asceta ‘vestito di vento’ come gli asceti jaina ad essere descritto in questo vivido inno del Rg-veda. Egli ha acquisito i poteri dell’ordine più elevato, anche se il suo modo di vita non costituisce uno degli āśrama, degli stadi riconosciuti. La sua funzione è quella di collaborare direttamente con gli Dei dei quali è alleato […] Egli vive dovunque, la sua casa è sia a Occidente che a Oriente, è l’uomo universale. Ma il prezzo che deve pagare per questo stato è forse quello di cessare di essere un uomo normale . Come un asceta dai lunghi capelli, un muni, un mistico, un viandante, un homo viator, un ribelle, con la sua fede e la sua grande abilità intellettuale, Raimon Panikkar è riuscito a penetrare nel cuore di due mondi lontani, abitandoli entrambi, facendoli propri. Ha conosciuto l’Oriente e l’Occidente, li ha vissuti e abbandonati, per poi ritrovarli ancora. Non si è accontentato di studiare altre religioni e modi di vivere ma ha voluto sprofondare in essi, farli propri, viverli fino in fondo. Raimon era convinto che la conoscenza superficiale di un’altra cultura (che conduce agli atteggiamenti statici di accettazione o tolleranza), sia insufficiente . Se si può pregare per gli hindu, perché non andare con loro nel tempio o in chiesa e partecipare insieme al culto? In effetti, come si può incontrare l’Altro se in verità lo tengo fuori da quello che tocca il mio essere più profondo, da quello in cui io tento di raggiungere il mistero stesso della realtà? Se non si può pregare insieme, allora parlare di dialogo e di scambio, beh, è semplicemente un abuso . Il filosofo hindu-cristiano, rimanendo fedele alla veste talare per tutta la vita, non si è chiuso pertanto entro i confini di un’unica credenza – quella cristiana – ma si è aperto alle diverse manifestazioni del Divino: ha pregato in tante lingue, si è scoperto buddhista e hindu, rimanendo sempre cristiano. L’appartenenza o meno a una determinata religione è sempre stata per Raimon uno pseudo-problema: “L’esperienza religiosa non va certo confusa con l’appartenenza religiosa. L’esperienza religiosa basta a se stessa”, ricorda Panikkar alla filosofa Gwendoline Jarczyk . La religione, nel senso profondo del termine, non può essere vissuta come se fosse un’ideologia, un qualcosa a cui aggrapparsi o dietro cui nascondersi. L’uomo religioso, il mistico, ripete Panikkar, è sempre libero e, per questo, non ha bisogno di difendere e difendersi da nulla…è colui che conosce le tante lingue dello Spirito – che soffia dove, come e quando vuole. La libertà dell’homo religiosus si esprime quindi nella sua capacità di farsi altro. Scrive così Panikkar: Se accade che io abbia radici profonde in due paesi potrei possedere due lingue e vibrare con due tipi di sensibilità […] Perché non dovrei avere allora, non dico soltanto una doppia nazionalità – cosa che riguarda il campo giuridico – ma una fedeltà multipla che mi faccia sentire allo stesso tempo una cosa e l’altra? […] Può dunque esistere una profonda esperienza di appartenenza a contesti culturali diversi. Perché dovrebbe essere radicalmente impossibile in ambito religioso? Mi spingerei ancora più avanti, fino a sostenere che se nel crogiolo del tuo cuore non fai almeno in maniera incoativa un’esperienza interreligiosa, rischi di divenire, in una maniera o nell’altra, un fanatico. Perché? Per la buona ragione che, se non condivido in niente la tua esperienza singolare, se addirittura sembro testimoniare di una differenza con te che si situerebbe nel registro del contraddittorio e dell’esclusione, non mi resterà, nel momento in cui ci troveremo a parlare insieme, che tentare di convertirti – posto che non faccia la scelta di combatterti, o più semplicemente di ignorarti. Questa apertura radicale all’elemento centrale di una esperienza religiosa è il segno della sua autenticità. È vero che passare da qui ad una doppia fedeltà che impegni a un livello paragonabile non è cosa comune. Resta il fatto che una vera esperienza di questo tipo, vissuta dal di dentro, è infinitamente preziosa . Panikkar viaggiava ma non era un turista. Non fotografava paesaggi e templi ma diventava il luogo che visitava, si confondeva tra le sue genti, pregava con gli altri, si lasciava trasformare. Amava l’Occidente, dove è nato, e l’Oriente, che ha riscoperto, ma, come ogni uomo libero, non apparteneva né all’uno né all’altro. La sua era la libertà propria del mistico: superando i confini spaziali e temporali, si è sempre sentito libero di appartenere al Tutto senza dover aderire a niente.[…] Raimon Panikkar si è impegnato, in tutto il corso della sua vita, ad abbattere quei confini illusori che ci separano dall’Altro, dalla Terra e dal Divino; ha seguito l’orma di tutti gli spiriti, delle ninfe e degli animali della foresta – riuscendo a dare vita ad una nuova visione della Realtà, a-duale, relazionale, dove corpo e spirito, scienza e religione, pensiero razionale e simbolico, Occidente e Oriente, possano convivere in armonia senza escludersi a vicenda. Panikkar era un ribelle, non voleva essere classificato, identificato; amava de-costruire ogni definizione; ogni tanto permetteva a chi studiava il suo pensiero di farsi ‘etichettare’ ma era consapevole che si trattava solo di una maschera; giocava con la vita, con la sua identità, si ‘travestiva’ e, s-mascherandosi, rimaneva fedele a se stesso. Era un mistico, ma non ha mai voluto definirsi un maestro (così come non si è mai sentito un discepolo). Panikkar ha sempre voluto piuttosto essere considerato ‘un buon amico’ . Le sue originali liturgie hanno sempre affascinato uomini di diverse tradizioni religiose. Ancora oggi, nella piccola parrocchia vicino a Città di Castello, Achille Rossi, prete, scrittore ed educatore, ispirato dal suo caro amico Panikkar, incontra i fedeli seduto a terra. Le sue messe, in cui vengono letti i versi delle Upanişad accanto ai passi del Vangelo, prevedono momenti dedicati al silenzio, alla meditazione e alla preghiera. Insieme a un’intensa attività pastorale Raimon, e così anche Achille Rossi, non ha mai comunque dimenticato l’impegno politico. Guardando le cose dall’alto, aspirando sempre a collaborare con il Divino, Panikkar non ha infatti mai voluto astrarsi dal mondo e allontanarsi dall’uomo. La sua religiosità era profondamente umana, non mirava solo a raggiungere il cielo, il nirvana o la salvezza del singolo individuo; la sua era una spiritualità secolare che, oltre alla Contemplazione, prevedeva anche l’Azione, l’impegno nella polis e la pratica del dialogo interculturale e intrareligioso Panikkar non ha infatti mai voluto astrarsi dal mondo e allontanarsi dall’uomo. La sua religiosità era profondamente umana, non mirava solo a raggiungere il cielo, il nirvana o la salvezza del singolo individuo; la sua era una spiritualità secolare che, oltre alla Contemplazione, prevedeva anche l’Azione, l’impegno nella polis e la pratica del dialogo interculturale e intrareligioso. Per il filosofo, senza un atteggiamento aperto a nuove cosmovisioni e culture, la nostra civiltà è destinata a soffocare. Per questo, il teologo del dialogo, non ha mai smesso, nelle scuole, nelle parrocchie, tra accademici e scienziati, tra atei e ‘uomini di fede’, di denunciare i pericoli che sta vivendo la nostra società globale con la sua assurda pretesa di universalità. Raimon Panikkar invita così gli uomini a una trasformazione radicale: Il problema dell’altro richiede una trasformazione eroica di cui siamo tutti corresponsabili. Il momento storico delle riforme, che consiste nel tentativo di riformare il nostro sistema eliminando i tanti aspetti che non vanno, è finito. Non è la morale che salverà il mondo. Gli impazienti pensano che con la deformazione, ossia con la violenza (rivoluzione), la distruzione, si potrà creare poi una cosa nuova. La riforma non funziona, la deformazione è controproducente e inaccettabile. C’è bisogno di una trasformazione che equivale a un radicale cambiamento del modo di pensare e di vivere. Per questo gli intellettuali hanno una responsabilità enorme. Non possiamo lavarci le mani e dire che non è compito nostro. Questa trasformazione eroica richiede di capovolgere tutti i nostri sistemi di valori . Panikkar si rivolge così agli intellettuali affinché questi possano recuperare un sapere trans-culturale e inter-culturale uscendo dai loro monologhi dannosi e infecondi. Non esiste, sostiene ancora, una filosofia ‘autentica’ che non sia interculturale e che non si assuma il compito – superando l’individualismo imperante dei nostri giorni – di recuperare, attraverso il dialogo con l’Altro, una memoria storica che ci permetta di non dimenticare la schiavitù, le crociate e il colonialismo. La filosofia, come ogni scienza che si occupa dell’Uomo, deve dunque fare un passo avanti, aprirsi con fiducia a nuove narrazioni, nuove storie e nuovi miti. I grandi pensatori del nostro tempo hanno pertanto il dovere di gettare ponti tra una cultura e un’altra promuovendo il dialogo tra religioni, classi e culture apparentemente tanto lontane. In questo testo incontreremo più di una volta figure impegnate ad assolvere questo importante compito. Il Dalai Lama, ad esempio, grande esponente della cultura del dialogo, è sicuramente tra queste . Sua Santità Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del popolo tibetano, sta cercando in questi anni di diffondere il principio della nonviolenza e dell’armonia interreligiosa. Attraverso i suoi insegnamenti e le sue azioni quotidiane, il Dalai Lama vuole dimostrare che la cultura orientale e occidentale, la scienza moderna e il buddhismo, la dimensione materiale e spirituale, possono (e devono) incontrarsi. Le visioni della scienza hanno arricchito molti aspetti della mia visione del mondo buddhista. La teoria di Einstein della relatività, con i suoi lucidi esperimenti mentali, ha dato prova empirica del mio ‘attaccamento’ alla teoria di Nagarjuna sulla relatività del tempo. Il quadro straordinariamente dettagliato del comportamento delle particelle subatomiche a livelli così infinitesimali, difficili perfino da immaginare, mi ha ricordato gli insegnamenti del Buddha sulla natura transeunte di tutte le cose. La scoperta del genoma che tutti possediamo mi ha confermato nel punto di vista del buddhismo sull’uguaglianza di tutti gli uomini . Scienza e tecnologia, le grandi arti dell’Occidente, sono quindi entrambe importanti. Il pensiero scientifico però – continua Sua Santità – per non diventare pericoloso, ha bisogno di essere relativizzato e, contemporaneamente, deve essere sostenuto da una mente in salute. Per questo il calcolo deve essere accompagnato dalla meditazione e la mente e il cuore devono lavorare all’unisono. Così scrive ancora il Dalai Lama: Il pericolo è che gli esseri umani possano essere ridotti a nient’altro che a macchine biologiche, il prodotto di una mera eventualità nella casuale combinazione di geni, con l’unico scopo di soddisfare l’imperativo biologico della riproduzione. All’opposto, però, la spiritualità deve essere arricchita dalla consapevolezza delle ricerche scientifiche. Se ignorassimo i progressi della scienza, la nostra pratica spirituale ne soffrirebbe notevolmente e potremmo perfino diventare preda del fondamentalismo. Ecco una delle ragioni per cui incoraggio i miei fratelli buddhisti a studiare la scienza . La guida del popolo tibetano invita dunque l’uomo a riappropriarsi della propria dimensione spirituale, della propria umiltà e compassione e, allo stesso tempo, esorta il mondo intero ad abbracciare un’etica condivisa che, andando al di là delle singole appartenenze religiose – oggi forse abbastanza irrilevanti – integri due attitudini, quella orientale del silenzio e dell’introspezione e quella occidentale della parola e dell’azione. Un’altra figura-ponte che troveremo in questo lavoro è Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana che tutt’oggi si batte – in India e in Occidente – per la salvezza della terra, la nostra Grande Madre. Vandana sostiene che il rispetto e la cura del pianeta in cui viviamo è possibile solo grazie al recupero di un’attitudine orientale, femminile, che oggi, con la vittoria del sistema occidentale di stampo patriarcale, si sta perdendo . Non meno importanti sono le figure di Jiddu Krishnamurti, filosofo apolide di origine indiana e di Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita, che sono state fonte d’ispirazione per la stesura di queste pagine. Krishnamurti, abbracciando come Panikkar l’advaita vedanta, invita l’uomo occidentale a liberarsi da tutti quei condizionamenti che lo tengono imprigionato a dogmi e ideologie sterili e pericolose. Anche questo filosofo, abbandonando ogni setta, rifiutando ogni autorità ideologica e spirituale e rifuggendo da ogni guru, ha vissuto di casa in entrambi i Mari, tra l’India, sua terra natia, e gli Stati Uniti. Sulla stessa linea di pensiero, vivendo tra Vietnam, America e Francia – dove ha fondato Plum Village, una comunità di monaci e laici – anche Thich Nhath Hanh ha scelto di attingere all’Oriente e all’Occidente. Lontano da ogni forma di proselitismo, questo grande monaco vietnamita è convinto che la ricerca interiore e l’impegno civile e sociale (lui stesso si è sempre impegnato in prima persona nella lotta per la difesa dei Diritti Umani), siano entrambi di fondamentale importanza per l’uomo di oggi. Non si tratta di convertirsi a una particolare religione o una nuova scuola di pensiero; per Thich Nhath Hanh, come per gli altri uomini-ponte appena citati, la cosa più urgente da fare è uscire da una logica dualista che oppone il Noi al Voi, l’Oriente all’Occidente. Oggi è necessaria – e questi grandi uomini ce lo ricordano costantemente – una nuova consapevolezza. L’umanità ha bisogno di una nuova coscienza, di una rivoluzione interiore, una metanoia che parta dall’individuo senza fermarsi a esso. Dobbiamo pertanto, ognuno a proprio modo, abbandonare quelle certezze dietro le quali ci siamo celati per troppi anni: primo fra tutti il mito della civiltà tecnologica. Per rendere possibile questa trasformazione dobbiamo avvalerci di mediatori – non solo di traduttori, linguisti e interpreti – di uomini che abbiano praticato il Dialogo, che si siano lasciati ‘influenzare’ – e non condizionare – da forme di pensiero differenti […] È arrivato il momento di cominciare a trasformare il confine, ciò che divide, in frontiera, quella terra di nessuno posta tra due luoghi dove avviene l’incontro, quello spazio che, mentre separa, unisce . Raimon Panikkar, definito dall’economista iraniano Majid Rahnema un Uomo di Potenza , insieme ad altri grandi pensatori del nostro tempo, può forse aiutarci in questo arduo compito. Per questo abbiamo deciso di dedicargli le pagine che seguono. In questo testo, un breve viaggio nella dimensione orientale e occidentale dell’uomo, cercheremo così di presentare la via, suggerita da Panikkar, per un incontro fecondo tra Oriente e Occidente e le strategie necessarie per evitare che il nostro mondo vada in frantumi. Nella prima parte, dopo una breve presentazione della vita del filosofo hindu-spagnolo, ci soffermeremo sul problema della sua identità multiforme. Nella seconda parte entreremo invece direttamente nel cuore del nostro argomento: l’incontro tra Oriente e Occidente. Qui verrà affrontato il problema dell’isolamento culturale, superabile solo attraverso la costruzione di un nuovo ponte di comprensione tra due territori geografici e culturali così vicini e così distanti. Vedremo poi che l’Oriente e l’Occidente in realtà altro non sono che il simbolo di due dimensioni della realtà e dell’uomo: il femminile e il maschile, il silenzio e la parola, il mito e il logos, il pensiero razionale e simbolico. Il dialogo interculturale e intrareligioso diventa così un percorso interiore, la ricerca di un’armonia sulla terra e all’interno di noi stessi. Presenteremo in seguito – soprattutto nel capitolo riguardante il rapporto tra scienza e conoscenza – la critica panikkariana alla società tecnocratica, tema affrontato dal filosofo in quasi tutti i suoi testi. L’ultima parte del lavoro sarà infine dedicata ai problemi contemporanei della frammentazione del sapere e della frammentazione dell’uomo, risolvibili solo grazie alla paziente opera di ri-legatura del mondo e della realtà.