I Magi Eterni di Michele Moramarco RECENSIONE A I MAGI ETERNI DI MICHELE MORAMARCO
M.Roberta Cappellini (CIRPIT) 02.02.2015
Si presenta come un’opera insolita il ricco testo di Michele e Graziano Moramarco sui Magi Eterni, per i legami che stringe tra Iran ed Israele e per i ponti che lancia tra Ebraismo, Cristianesimo e Mazdeismo. Indubbiamente un testo , che ha il coraggio dell’”inattualità”, poiché ritorna ai miti e ai loro contenuti simbolici (Durand) per tracciarne un quadro di profonda interreligiosità. Un testo che si pone indubbiamente più sul piano ermeneutico religioso esistenzialista, anzichè su quello strettamente esegetico, poiché l’interpretazione pur basandosi su abbondanti dati storici, fluttua tra i ricordi d’infanzia, la riflessione religiosa , gli interrogativi filosofico-esistenziali e l’esperienza vissuta a livello profondo, finanche nelle sue sfumature più poetiche.
La metafora “magica”, epifanica, personificata dai Magi evangelici (Matteo e Luca) e in particolare rappresentati nell’ icona del Presepio, raffigura un viaggio nella ierostoria intrapreso tra mondi ermeneuticamente paralleli, rappresentati da figure bibliche, avestiche ed evangeliche, attraverso i rispettivi testi sacri, di cui l’autore ne intreccia sapientemente le fila, sottolineandone le corrispondenze, fino a tratteggiare una visione mazdeo-cristiana che attraversa le Chiese particolari per approdare alla Chiesa Spirituale. Quest’ultima intesa quale prefigurazione dell’avvento del “regno di Dio nella meraviglia”, coglibile cioè attraverso quell’Intelletto d’Amore di iranica memoria che ha tanto impregnato di sé anche la nostra tradizione rinascimentale, recuperabile solamente, come viene chiaramente indicato, attraverso un’ educazione estetica o degli “amorosi sensi “.
La premessa, costituita dalla continuità storica ed ierostorica tra le figure di Noè, Zarathustra e Gesù, evidenzia quello scambio interreligioso che fin dall’alba dei tempi mesopotamici e babilonesi ha fecondato le tre tradizioni, appunto quella ebraica, quella zoroastriana e quella cristiana, come ben mostrano “i lasciti” scritturali: dall’angelologia ebraica, alla metafisica della Luce e alla Parola giovannea, fino a giungere ad una possibile lettura mazdeo-cristiana dei Vangeli, in chiave dualistica (Luce/tenebra, Bene/male, ecc).
In particolare l’icona della Natività, attraverso la potenzialità infinitizzante del suo simbolo, annuncia, quale mondo tra due mondi, quel mundus imaginalis di teosofica, iranica memoria (Corbin) riferito alle idee, agli archetipi, che richiama una metafisica dell’Immaginazione. Non a caso i termini immaginazione e mago/magia sono etimologicamente affini, rivelando una funzione cognitiva , un valore noetico, non una fantasia irreale, come interpreta l’uomo della modernità. E’ in questo meta-spazio immaginale che si colloca la sensibilità contemplativa, la visione interiore, l’iniziazione, la preghiera, la vita dello spirito. L’immagine dunque come strumento di esperienza interiore propria dell’homo religiosus (lat religo, collegare), di colui cioè che vive la vita in senso pieno nelle tre dimensioni, umana, cosmica, divina. In tale ottica il pellegrinaggio dei Magi, di questi antichi sacerdoti persiani (gr. magòi), è un’allegoria dell’esperienza mistica (cui peraltro invita il testo).
Ma l’icona del Presepio rappresenta anche la Natività, che continuamente si rigenera, ossia il nucleo originario della vita rappresentato dalla triade Mater, Pater, Filius, quel nucleo familiare in cui “circola lo stesso amore primario che tiene insieme il Cosmo”, “vero tramite sacro, trascendente e metastorico, che unisce Mazdeismo e Cristianesimo” (e non solo aggiungiamo noi a proposito della tradizione ebraica, sulle orme di Moshé Idel e di Moshe Weinfeld), qui letti nella parentela spirituale suggellata dal viaggio dei santi Magi a Betlemme.
Questo viaggio “iniziatico” che è al contempo una delicata autobiografia, attraverso le tracce lasciate dall’ homo viator – che si estendono in molteplici direzioni e preludono a svariati panorami spirituali- ha indubbiamente il merito di superare gli steccati dogmatici , recuperando antiche simbologie che parlano direttamente all’anima attraverso la koiné immaginale. In tal senso il testo non solo fa opera di interculturalità religiosa, ma anche di “sociatrìa”( Durand), intendendo quell’ opera terapeutica di equilibrazione sociale, in grado di recuperare e al contempo rinnovare la nostra dimensione spirituale perduta.
Testo rivolto non solo agli studiosi di religioni comparate, ma anche ad un pubblico colto più laico e financo massonico, per l’elevato tenore culturale ed etico dei contenuti, in grado si spaziare tra differenti culture e lingue dall’antichità ai giorni nostri e di tracciarne i collegamenti tra arte, religione e filosofia, come mostra il dotto excursus insieme al particolare corredo iconografico. Non solo quindi i Magi quivi descritti “nella loro essenza eterna, ma anche lo stesso testo, si configurano “come costruttori di ponti spirituali che solcano i secoli e le culture”, verso l’unica Patria Eterna, come ben delineato nel Manifesto universalista della Fraternità Mazdeo-Cristiana che chiude il libro.
Possiamo pertanto concludere, sulla scia dell’”Utopia Suprema”, affermando che è sempre l’uomo, ritrovato alla fine di questo interessante viaggio, – rigenerato nella sua luce spirituale, in quanto riconosciuto “Figlio di Dio” in ugual misura, sebbene in forme diverse, dalle tre fedi monoteistiche, ebraica, mazdea e cristiana – a ricostituire l’infranto, prodotto dal “principe di questo mondo” e a rinnovare pertanto il proprio religioso compito esistenziale, quale autentico “Fedele d’Amore”.