Verso l’ultimo fiume, sulla barca di Panikkar – Intervista a Luigi Villanova, Festival Biblico di Vicenza 2016

copertina webPrima domanda: qual è oggi la posizione dell’Occidente in merito alla pace?

La prendo larga. Nel febbraio 2002 il segretario USA alla difesa Donald Rumsfeld, durante una conferenza stampa, mostrò la sua presunzione professorale ai giornalisti lì convenuti e al mondo intero, lanciandosi in un piccolo esperimento di filosofia dedicato ai rapporti tra il noto e l’ignoto[1]. Quell’esperimento, è quanto cercherò qui di illustrare, è costato al mondo molto caro. «Ci sono conoscenze note (known knowns)- disse -, ossia cose che sappiamo di sapere. Ci sono ignoranze note (known unknowns), cioè cose che adesso sappiamo di non sapere. Ma ci sono anche ignoranze ignote (unknown unknowns): cose che non sappiamo di non sapere». Il fine di questo esercizio era di giustificare l’imminente attacco USA all’IRAQ: ci sono cose che sappiamo di sapere (che Saddam è presidente dell’IRAQ); cose che sappiamo di non sapere (quante armi di distruzione di massa possiede Saddam); ma ci sono anche cose che non sappiamo di non sapere: e se Saddam possiede qualche arma segreta che neppure immaginiamo? Ma quello che Rumsfeld dimenticò di aggiungere era la quarta possibilità della casistica, una possibilità fondamentale: le conoscenze ignote (unknown knowns), ovvero le cose che non sappiamo di sapere. Se Rumsfeld pensava che il pericolo principale nel conflitto con l’IRAQ fosse l’ignoranza ignota, cioè le minacce di Saddam che neppure sospettavamo, la giusta risposta dovrebbe essere stata che il pericolo principale erano invece le “conoscenze ignote”, le credenze rimosse e i presupposti cui aderiamo senza nemmeno saperlo. Queste furono la causa remota principale dei problemi che gli USA incontrarono in IRAQ, e l’omissione di Rumsfeld dimostra che era un falso filosofo.

Quest’omissis, per così dire, fu la vera causa del dramma iracheno; ma probabilmente anche delle tragedie che ci stanno affliggendo oggi le quali, per larga parte, sono frutto di quell’avventura senza verità. Ma quali sarebbero state queste fantomatiche conoscenze ignote?

Per provare a sottrarle dall’ombra, non trovo idea migliore di ciò che Panikkar chiama Mito, che poi è forse anche il concetto più importante di tutto il suo pensiero. Cosa intende con questo termine? Non le narrazioni epiche (come i miti degli antichi), non l’apoteosi di un persona (“sei un mito!”), ma qualcosa di molto più profondo: il mito è ciò in cui crediamo senza sapere che ci crediamo. Quell’insieme di simboli soprattutto, ma anche idee, modi di vedere la realtà cui aderiamo senza saperlo e che nondimeno plasmano radicalmente i nostri giudizi e le nostre azioni.

Tollerando qualche approssimazione, si potrebbe dire che il mito è la cultura cui una persona aderisce vivendoci. Espressioni quotidiane come “è così e basta!”, in molti casi rivelano un mito implicito che non si mette in discussione.

Perché evoco questa apparente astruseria del mito? Perché secondo Panikkar, e io condivido, il tema della pace inteso come ordine mondiale, ancor prima e più che una questione di (buona) volontà o moralità, è un problema di mito[2].

Com’è possibile? Non ci è spontaneo pensare, infatti, che sia una questione legata esclusivamente alla natura aggressiva dell’uomo? Certo, l’uomo ha sempre conosciuto la violenza; ma la guerra, intesa come violenza istituzionalizzata, è possibile solo in determinati miti, in determinate culture. Non tutte le culture, quindi, sono terreno di coltura adatto alla guerra, ma solo quelle della carenza, e perciò dell’accumulo e del potere, offrono le condizioni necessarie per il suo sviluppo.

La guerra, insomma, non è un fatto di natura, ma di cultura.

Posto ciò, bisogna riconoscere che essa (e non la “semplice” violenza)può svilupparsi solo nel mito dell’Occidente che, se riesco a spiegarmi, ha la sua radice remota – e virtuale, beninteso – in Aristotele, il quale all’inizio della sua Metafisica avanza una considerazione apparentemente molto condivisibile: “Tutti gli uomini desiderano sapere[3]”. Egli intendeva sapere le cause delle cose, certo. Progressivamente però, all’inizio della modernità, il “sapere-le-cause-delle-cose” diventa “sapere-come-sono-fatte-le-cose” in vista di un utile (Bacone); inoltre, dopo Cartesio, la conoscenza della verità  diventa sempre più la certezza della verità, che poi è ulteriormente degenerata in ossessione della sicurezza (ma, come sappiamo dalla nostra esperienza, la verità è molto più della certezza).

Ora, l’intreccio di queste due categorie – utilità e sicurezza – genera quella visione di fondo (Mito) esclusivamente occidentale, dell’evoluzione totale, della crescita senza fine, dello sviluppo interminabile inteso come aumento dei capitali, dei consumi, delle conoscenze, delle risorse, degli standard di vita, delle rendite finanziarie e molto altro[4]. Tale crescita infinita si regge sul presupposto mitico (culturale e, quindi, dato per scontato) che la materia (spazio e tempo) sia infinita (e quindi infinitamente utilizzabile): ma questo è un attributo teologico che non si può proiettare sulla materia, semplicemente perché il cosmo reale infinito non è! Tale presupposto, pertanto, genera necessariamente una competizione tra i popoli. Perché il mito dello sviluppo eterno si mantenga, quindi, è strutturalmente necessario che intere fasce della popolazione mondiale ne siano escluse; e per garantire ciò bisogna che pochi abbiano un potere tale da assicurargli questo sviluppo incontrastato: si tratta del potere tecnologico (per questo, ad esempio, solo alcuni stati detengono la bomba atomica).

Questo mito occidentale dello sviluppo infinito è strutturalmente malvagio e, alla fine, anche contraddittorio, perché si ritorce su se stesso mentre arma i poveri che esclude.

Si capisce così che la guerra è l’aborto di una madre “sbagliata”: quel presupposto creduto-non-saputo (unknown known) che conferisce follemente al cosmo proprietà che sono solo di Dio (e che, quindi, solo pochi possono sfruttare all’infinito). Comunque lo si intenda. O, anche, non lo si intenda. Insomma, è in ogni caso un problema teologico risolto male, prima che politico.

E Rumsfeld questo non lo sapeva (o magari, più semplicemente, l’ha taciuto…).

 

 

Seconda domanda: può il dialogo tra le religioni svolgersi nella pace e portare alla pace?

Vorrei prima commentare brevemente una bella considerazione di Panikkar che abbiamo sentito nel video[5]: “Le religioni non hanno il monopolio della religione”. Essa ci suggerisce un’idea molto importante, che si pone a mio avviso come necessario complemento alle critiche che due grandi pensatori dell’Ottocento hanno rivolto alla religione e, in particolare, al cristianesimo. Il primo, Marx, il quale sosteneva che la religione è un anestetico utile ad addormentare le coscienze; e Nietzsche, che affermava che siamo entrati nell’epoca inquietante in cui “Dio è morto”, ovvero quella in cui i valori ultimi (e quindi religiosi) non hanno più, almeno in Occidente, forza di trazione. La critica è giusta, molto onesta, e va certamente ascoltata. Ma dice la metà del problema. Piegando forse un po’ impunemente la frase del video, mi pare che Panikkar controbatta a queste critiche affermando che gli uomini, anche nel nostro contesto che ci ostiniamo a definire secolarizzato, hanno bisogno di consacrarsi a qualcosa che sentono in grado di giustificare la loro vita, e per questo “qualcosa” sono disposti a sacrificare qualcos’altro (chi si consacra al lavoro, chi alla sua realizzazione personale, chi a un’idea, chi a un assoluto di qualsiasi foggia sia). Questa dinamica presenta i tratti di una religione, sebbene non istituita, perché rivela il voto di legarsi (e pare che il termine religione significhi anzitutto “legame”, appunto) a qualche senso ultimo. Certo, poi si tratterà di capire se tale religione sia veramente in grado di salvare. Ma questa è un’altra questione. In ogni caso, la religione non si può eliminare dall’umano.

Questo fatto appare con una certa evidenza su larga scala, quando le religioni si trovano vicine. E dico “si trovano”, perché per secoli si sono sostanzialmente ignorate vivendo, tutto sommato, in un quieto isolamento. È un contesto inedito, lo sappiamo bene, in cui non è questione di “semplice” tolleranza. Panikkar suggerisce, infatti, che il problema del pluralismo nasce quando due o più religioni si trovano in uno stesso spazio nel medesimo tempo, e ognuna avanza la legittima pretesa di rivelare la verità ultima del tutto. Ultima, non penultima. Finché discutiamo se sia più buona la pizza piuttosto che il kebab, siamo nel dominio del penultimo. Ci si può accendere, certo, e magari anche restare divergenti. In ogni caso, ne andrà di mezzo tutt’al più l’esito di una serata, non il destino di una vita. Quando si varca la soglia delle questioni ultime, invece, qual è la “vera religione”?

Questo problema, ci dice Panikkar, è insolubile con la ragione, che oscilla tra la soluzione di ridurre tutte le parti a una (solo una è quella vera e le altre sono necessariamente false) e quella di impaludarsi nel conflitto infinito che alla fine, però, si deve risolvere decretando comunque la superiorità di una soltanto. Come se ne esce?

Egli suggerisce che si potrebbe iniziare a distinguere tra la fede (come tensione di ogni uomo al Mistero Ultimo dell’esistere) e la credenza (ossia l’espressione storica e concreta della fede). Se ci irrigidiamo sulle rispettive credenze, l’esito potrà essere al meglio una sorvegliata indifferenza (“noi stiamo sul nostro, loro sul loro!”); al peggio, l’intolleranza violenta. L’incontro vero, afferma Panikkar, può avvenire solo nel regno della fede, quando le due parti sono disposte a relativizzare le proprie credenze e, progressivamente, a credere ciò in cui l’altro crede, a capirlo come egli capisce se stesso (non come noi lo capiamo). Alla fine, si inizia a comprendere che la verità non è una (la nostra, ovviamente, e tutti gli altri sotto!), ma nemmeno due (conflitto infinito e ingestibile che invoca il ritorno all’unico), perché è la relazione stessa dei due dialoganti: relazione che progressivamente li cambia iniziando a cambiare anche, in un modo imprevedibile, le rispettive credenze.

Il futuro delle religioni, certo, ma, più radicalmente, il futuro pacifico dei popoli sulla terra dipenderà da quanto le religioni e le culture riusciranno a praticare il pluralismo culturale e religioso.

E, a questo proposito, il cristianesimo potrebbe avere qualcosa di buono da dire.

 

Terza domanda: qual è lo sviluppo del Cristianesimo nel dialogo tra le religioni, e quale il suo contributo per la pace?

 

Il titolo del nostro incontro, Verso l’ultimo fiume, fa eco a quello di un articolo molto bello e originale che recita “Il Giordano, il Tevere e il Gange[6]” in cui Panikkar, usando una metafora geografica/fluviale, si domanda se la corrente cristiana sia una delle tante, oppure se assorba anche tutte le altre.

In base alla risposta che si dà a questa domanda, discendono conseguenze enormi a tanti livelli.

I tre fiumi, allora, corrispondono a tre diverse epoche storiche e, al contempo, ad altrettanti atteggiamenti fondamentali.

Il Giordano, fiume di Israele, rappresenta la consapevolezza cristiana dei primi tre secoli. Il gruppo cristiano, chiamiamolo così, non si pensa ancora in termini di religione istituzionale, ma è piuttosto attraversato da un forte vena di testimonianza a un concreto evento storico. Il martire è la figura specifica di questo periodo/contesto, e l’atteggiamento di fondo è il Cristianesimo.

Il Tevere corrisponde al passaggio del cristianesimo nell’Occidente europeo e comprende tre momenti. Molto approssimativamente, potremmo far iniziare questa fase con l’editto di Tessalonica (380) che dichiara il cristianesimo religione dell’Impero e proibisce i culti pagani. L’opera della nuova religione, fino all’ottavo secolo, diventa anzitutto quella di convertire i pagani; in un secondo momento, che si estende dal termine del precedente sino al Quattrocento, quella di affermarsi politicamente. Questa opera rafforza molto l’identità, e il cristianesimo diventa sempre più Cristianità. Se prima il cristiano era un testimone, ora è un soldato, un militante (la struttura interna dell’AC fino a pochi anni fa, ricalcava nei suoi livelli quella di un esercito; così gli “ordini” religiosi e i loro “generali” derivano questi appellativi dall’universo simbolico militare; la catechesi sulla Cresima, nel presentare il candidato come “soldato di Cristo”, mutuava da questo contesto quel linguaggio). Qua il cristianesimo sviluppa l’idea di essere la sola religione. Un fatto infine sconvolge questo ordine assestato: la scoperta delle Americhe. In questo periodo, e siamo così al terzo momento, si sviluppa l’idea della missione, non più intesa come conquista, però, quanto di “guadagnare alla fede” altri popoli. Un vero cristiano è missionario. L’atteggiamento di fondo è la cristianità.

Ma la fine progressiva del colonialismo, le due guerre mondiali, l’indipendenza di molti stati, ci fa entrare in un nuovo ordine, simboleggiato appunto dall’ultimo fiume.

Il Gange, simbolo di tutte le culture altre da quella occidentale, è la fase in cui stiamo entrando, nella quale i cristiani sentono che, forse, più che conquistare o convertire, hanno essi stessi da imparare. Si comincia a capire che le culture e le religioni non sono semplici oggetti, ma soggetti che ci arricchiscono. I cristiani non devono difendere una cultura particolare, né una religione istituita. L’atteggiamento è quello della Cristianìa, in cui il cristianesimo assume la consapevolezza di essere una espressione del Mistero insondabile della realtà. Mistero che non è solo Materia, non solo Umanità, e non solo Divinità, ma abbraccio danzante di queste Tre. Realtà cosmo-te-andrica.

Solo se si manterrà questa triplice armonia la pace mondiale sarà possibile.

Dal punto di vista cristiano, certo, questo Mistero ultimo si chiama Cristo.

Ma il Cristo non è proprietà di nessuno, nemmeno dei cristiani, perché è la meta di tu[1] Desumo questo riferimento da S. Žižek, Evento, Utet, Torino 2014, 18-20. La conferenza di Rumsfeld è rinvenibile molto facilmente in internet; a questo proposito è impressionante che, nel digitare il nome del segretario della difesa in questione, si sia rinviati subito, e anzitutto, proprio a questo discorso lucido (e folle).

[2] Straordinarie a questo proposito le riflessioni raccolte in R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, cui qui mi riferisco abbondantemente.

[3] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 20112, 3.

[4] Stupefacenti, e purtroppo poco ascoltate – forse anche perché poco conosciute –, le riflessioni espresse in R. Panikkar, La fine della storia. La triplice struttura della coscienza umana del tempo, “Quaderni di psicoterapia infantile” 10 (1984) 16-109.

[5] Si tratta dell’unica videointervista condotta da Franco Battiato che si può trovare molto facilmente su youtube.

[6] R. Panikkar, Il Giordano, il Tevere e il Gange, in J. Hick – P. Knitter (ed.), L’unicità cristiana: un mito?, Cittadella Editrice, Assisi 1994, 186-226.